Vattienti



L'etimologia del termine flagellazione è latina e deriva da flagrum, (frusta - flagello), con la chiara allusione a percuotere un soggetto e trova attestazione sia nel mondo greco che in quello romano. Tralasciando i nessi giuridici , tipici del diritto penale, la fustigazione a carattere rituale ha un'origine molto più antica e rimanda ad un rito di propiziazione per la fecondità della terra, con l'offerta del sangue da parte del sacerdote e del fedele e si rifà agli antichi riti della morte di Attis, antichissima divinità frigia della vegetazione, che ebbe un vasto culto in patria e, in seguito alla diaspora frigia, si diffuse in Grecia. 

Il suo mito e il suo culto dovettero essere strettamente associati a quelli di Cibele, dal momento stesso in cui i Frigi, giunti in Asia Minore dalla Tracia, vi trovarono il complesso cultuale costituito da una grande Dea Madre, che poi sarà la Magna Mater romana, e da un nume della vegetazione, che muore e rinasce. 

Secondo una, delle tante versioni del mito dal vano tentativo di Zeus di possedere la Grande Madre nasce una figura ermafrodita di estrema violenza, Agdistis; gli dei decidono di privarla con un tranello della sua parte maschile, che recisa provoca la nascita di un albero il cui frutto è raccolto da Nana, che ne rimane gravida e da alla luce Attis. Questo cresce come un giovane e bellissimo pastore tanto che Agdistis e la Gran Madre se ne innamorano; quando sta per sposare la figlia di Mida, re di Pessinunte, Agdistis penetra nella stanza dove si celebra il banchetto e, ispirando a tutti un furore incontenibile, li induce ad autoevirarsi. Attis muore sotto un pino e,,-dal suo sangue nascono violette. Agdistis e la Gran Madre piangono il defunto, e Zeus concede una sua parziale resurrezione. 

Nell'arte ellenistica e romana, Attis è raffigurato come un giovane imberbe, dal costume frigio, con berretto a punta, anassiridi, tunica manicata e spesso stellata, e con in mano la verga da pastore. Sculture di Attis sono state trovate nei santuari di Cizico e Ostia. Insieme con Cibele appare nella patera d'argento di Parabiago. Un tipo particolare è quello funerario, in attitudine melanconica, sui sarcofagi romani. 

Varie erano le cerimonie che si celebravano in onore di Attis e che il Frazer nel suo volume "II ramo d'oro" elenca con dovizia di particolari: a Pessinunte e a Jeropoli, sempre nella Frigia, il 24 marzo, detto "giorno del sangue", 1'Arcigallo o "gran sacerdote" si cavava il sangue dalle braccia e lo presentava come offerta. I sacerdoti di grado inferiore e i fedeli, al suono di frenetiche danze si dilaniavano la carne con cocci per spargere sull' altare o sull' albero sacro il sangue che usciva dalle ferite. Si pensava che il sangue versato dal sacerdote e dal fedele durante il rito, avrebbe dovuto dare al dio la forza di rinascere. Il tutto avveniva all'interno del tempio e nessuno poteva entrare. 

Il culto di Attis, insieme con quello di Cibele, dall'Asia Minore, passò in occidente, giungendo poi in Italia, a Roma e nelle sue provincie, esportato nella penisola dai coloni greci. Le sue sorti furono, almeno in un primo momento, strettamente connesse con le varie vicende di politica religiosa alle quali fu soggetto il culto di Cibele, per poi assurgere a piena e riconosciuta dignità a partire dalla riforma di Claudio che lo inserì in un apposito calendario festivo. Il rito si svolgeva nel periodo dell'equinozio di primavera, dal 15 al 27 marzo : i cosiddetti dendrofori, portatori di alberi, trasportavano in processione solenne sul Palatino un pino avvolto in bende come un cadavere; poi, dopo giorni di digiuno e di lamentazione, i Galli, fedeli che si castravano e diventavano sacerdoti, si flagellavano e quelli che aspiravano a diventare sacerdoti si eviravano con una pietra tagliente, mentre gli iniziati venivano battezzati con il sangue di un toro. 

Importanti, anche le feste Lupercali in cui i Luperci correvano nudi intorno al colle Palatino percuotendo le adepte onde propiziarne la fecondità. Tali riti trovano riscontro figurato a Pompei nella Villa dei Misteri ed è lampante la funzione di purificazione che il sangue assolve in quanto miglior elemento che compone il corpo umano. 

Secondo il Prof. Antonino Basile, fondatore del Museo Etnografico di Palmi e della rivista "Folklore di Calabria", nella la sua tesi detta "Mediterranea", la cerimonia che si svolge a Nocera Terinese nei giorni di Venerdì e Sabato Santo, risente della concezione medioevale e della partecipazione alle sofferenze di Cristo, ma che le origini di essa non sono né cristiane né medioevali. Egli sottolinea nel suo scritto "II rito del Giovedì Santo in Nocera Terinese" la rassomiglianza dell’ uso dei “vattienti” con i riti per la morte di Attis, Adone e di altre divinità della vegetazione destinata a risorgere. 

Egli basa la sua tesi sul fatto che nell’ allora Giovedì Santo, oggi Sabato Santo, dopo la riforma liturgica voluta da papa Pio XII, a Nocera, nessun elemento di tristezza offusca la letizia della fausta cerimonia: infatti, egli testualmente dice, che: “...Gli abitanti di Nocera Terinese sono allegri, nonostante la tristezza che dovrebbe regnare nei giorni della passione: non soltanto le ragazze rubiconde ed avvenenti fanno sfoggio del loro abito nuovo, con orecchini, fermagli, bracciali, anelli, ma, nonostante che stia per iniziare la processione tutti sono lieti e spensierati, tutti si scambiano auguri e complimenti ed alzano il calice della fraternità che non verrà mai meno....”. Pone, il Basile, inoltre 1’ accento sulla presenza dei tradizionali piatti che le nostre donne preparano per abbellire i Sepolcri durante i giorni della Passione.

Essi vengono preparati con grande cura con semi di grano, orzo, ceci e lenticchie fatti germogliare al buio ed in brevissimo tempo. Tali piatti richiamano l’antico culto di Adone, i cosiddetti “Giardini di Adone”. “... Se essi, originariamente creati per un Dio della vegetazione e della natura la cui attività si ridesta in primavera, sopravvivono negli usi mediterranei cristiani, non è meraviglia che sopravviva ancora in un vecchio paese di Calabria il rito antichissimo del sangue: originario per la morte di Adone e per la sua resurrezione e per la morte e resurrezione di Attis esso rimane in Nocera Terinese, ma adattato alla commemorazione della morte e della resurrezione del Cristo, come sopravvivenza o come reviviscenza. Anche Attis moriva e resuscitava in piena libertà mentre la natura rimetteva le novelle fronde ed i nuovi fiori, premesse di frutti abbondanti”. 

Importante a questo punto è la ricerca archeologica, se infatti gli scavi di “Pian della Tirena” dessero per definitivi i risultati che la Soprintendenza Archeologica di Reggio Calabria insieme con i ricercatori dell’Università di Napoli durante alcune campagne di scavi hanno individuato: l’antica città omerica di Temesa e se si potesse accertare che a Temesa si praticavano tali riti, allora la tesi “Mediterranea” potrebbe avere quache possibilità di essere riconosciuta attendibile. Al momento di certo si sa che la flagellazione, nel Medioevo, assunse un particolare aspetto nel mondo religioso cristiano mutando il carattere di ritua-lità e divenendo essenzialmente uno strumento di penitenza e di espiazione dei peccati.

Le sue origini vanno ricercate nel fenomeno monastico che vedeva i monaci praticare la flagellazione a sangue all’interno dei conventi e che si manifestò nei primi anni del Mille allorché San Pier Damiani, nel "De laude Flagellorum" difese tale pratica tanto che gli stessi se ne fecero propagatori tra i laici divenendo largamente diffusa nei due secoli successivi. 

Infatti nella seconda metà del secolo XIII precisamente nel 1260, a Perugia, organizzata da Raniero Fasani si svolse una prima pubblica processione in cui fanno la comparsa i "Disciplinati di Cristo" vestiti con un sacco, che con una fune ai fianchi e con la "disciplina" di corregge in mano mossero il popolo a disciplinarsi pubblicamente.

Il fenomeno si propagò rapidamente grazie anche alle predicazioni popolari che monaci girovaghi andavano effettuando di borgo in borgo predicando ed auspicando la povertà materiale della Chiesa che nel frattempo era assurta a posizione di potere e di supremazia politica ed economica in una società povera e devastata da pestilenze e calamità naturali. Nacquero, quindi in molte altre regioni d'Italia, numerose altre "Confraternite", sotto i nomi di "flagellanti", "battuti", "battenti", "disciplinati", "frustati" i cui membri, nella massima parte, si radunavano per praticare, secondo i loro particolari statuti, le devozioni, cantare le loro laudi ed attendere ad esercizi di pietà ben definita e ad opere di carità. Accanto all'idea che la flagellazione sia stato un mezzo penitenziale, affiorò la convinzione che essa sia stata anche un mezzo espiatorio per impetrare dal ciclo la pace e la cessazione delle calamità come la peste e la guerra. 

 Altro notevole contributo alla propagazione del fenomeno dei Disciplinati la diedero le profezie apocalittiche dell'abate calabrese Gioacchino da Fiore, inizialmente monaco della Congregazione dei Cistercensi.

Riformati, menzionato da Dante nel Paradiso che gli dedicò i celebri versi: "... Il calabrese Giovacchino... di spirito profetico dotato..."; spirito profetico che ottenne durante il noviziato presso il cenobio della Sambucina, faro della spiritualità calabrese. Fu Priore per circa dieci anni dell'Abbazia di Santa Maria di Corazzo, poi dissociandosi si ritirò nell'Eremo di Pietralata. Quindi si portò sullo altopiano della Sila, e nel 1190, sulla scia di profonde e fervide meditazioni eresse un cenobio dedicato allo Spirito Santo ed a San Giovanni chiamato Fiore, in senso augurale, e conseguentemente fondò l'Ordine Florense.

Tra le molte opere dell' Abate Gioacchino merita segnalazione "Expositio in Apocalypsim" nella quale egli cerca di interpretare l'Apocalisse di San Giovanni. In quest'opera Egli fissa tre età: quella del Padre che va fino alla nascita di Gesù, quella del Figlio fino all’età presente ed infine a venire quella dello Spirito Santo, la cosiddetta "Terza Età", in cui precorrendo il pensiero di Tommaso Campanella e di altre fitte schiere di filosofi e pensatori, è foriera di una nuova società di uomini liberi e tale concezione del tutto nuova ventilava la possibilità di una seconda Apocalisse. Questo pensiero ha un indubbio potenziale rivoluzionario e, seppur professato in buona fede, incrinava i concetti base su cui poggiava il potere temporale della Chiesa. A questo si aggiunga che l'inizio della profetizzata terza età veniva fissato, in base a calcoli generazionali prestabiliti, proprio nello anno 1260.

Coincidenza volle che il periodo fu uno dei più travagliati del medioevo; basti ricordare la caduta di Gerusalemme e la vanificazione delle Crociate, la repressione di Enrico VI nel meridione d' Italia contro i feuda-tari ecclesiastici e normanni nel quadro delle lotte tra Papato ed Impero, il centro Italia ancora dilaniato ferocemente dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini, la corruzione dilagante tra le alte sfere ecclesiastiche; a questo si aggiungano le varie epidemie di peste e le conseguenti carestie ed il quadro generale assume caratteri veramente apocalittici. A questo punto tutti i movimenti penitenziali che si rifacevano al pensiero del Fasani fecero propria la teoria Gioachimita e questo costituì il substrato ideale alla propagazione dei vari movimenti penitenziali laici in tutta Europa. Uomini, donne, vecchi e giovani abbandonavano le loro case per dare luogo a processioni che, andavano da una città all'altra tra preghiere e battiture, seguendo il clero inferiore che portava croci e insegne sacre, indicando, in questo modo la via da seguire e la gente che accorreva al passaggio restava colpita ed impressionata da tale visione per cui con tale impatto emotivo si pentiva dei propri peccati. 

 Man mano i disciplinati si organizzarono in confraternite creando una vera e propria rivolta contro il clero, i nobili e le autorità del tempo, tanto che il papa Clemente VI nella bolla "Inter sollecitudines" del 1349, pur condividendo la pratica della penitenza, condanna in perpetuo le pratiche penitenziali svolte nell' ambito associazionistico. Nonostante la condanna della Chiesa dette Confraternite ricompaiono prepotentemente tra la fine del secolo XIV e gli inizi del XV: è questo il periodo che il Prof. Ernesto Pontieri illustre storico, due volte rettore dell' Università di Napoli e fondatore della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, originario di Nocera Terinese, pone come genesi dei nostri vattienti. 

Infatti egli dice testualmente nel suo volume "Divagazioni storiche e storio-grafiche": "...nulla di preciso si può affermare circa la epoca dell' introduzione: è probabile che questa avvenisse nel corso del secolo XIV, avendo noi notato la presenza in tale epoca di Compagnie di Flagellanti in diversi centri dell' Italia meridionale, continentale e della Sicilia; ma si può discendere anche al secolo successivo, periodo per Nocera di particolare fervore religioso, come testimoniano l'arrivo nel suo territorio degli Agostiniani e dei Minori Conventuali, che educati all'ascetica medioevale, vedevano nella violenza mortificatrice della carne una purificazione e quindi un merito, e con essa una disciplina elevatrice dello spirito...". 

 Quanto scrive il Pontieri, sostengono gli esperti di folklore popolare, deve essere inteso come "interpretazione o tesi medioevale o spiritualista" perché, dicono, il rito deve essere ricollegato a tutta la struttura penitenziale del medioevo.

Dal saggio del Prof. Augusto De Vincenzo docente dell' Università di Roma e ricercatore del C.N.R. dal titolo "Antropologia e storia: fonti e metodo di una ricerca sulla liturgia del sangue in Calabria" si desume il "....il rinvenimento delle Regole settecentesche della Congregazione della B. V. Annunziata di Nocera", che, "ha consentito di apprendere dell'esistenza della pratica della disciplina tra i congregati, nel paese, almeno a partire dal 1777, e fino alla metà del secolo successivo. Dal documento risulta anche che i confratelli della suddetta Congregazione si sottoponevano a questa pratica penitenziale a partire da settanta giorni prima della Pasqua e in tutti i venerdì di marzo sino al Venerdì Santo, quando, in processione di mortificazione, accompagnavano la statua della B.V. Addolorata per le vie del paese...".

E' molto difficile appurare quale sia l'origine del rituale con precisione, anche per le piccole ma continue mutazione che il rito ancora risente; la prima fonte scritta dovrebbe essere, secondo alcuni esperti, un documento della fine del 1800 ed è una lettera al direttore della rivista "La Calabria" ove un lettore che cela 1'anonimato firmandosi con le iniziali F.M.M. testimonia dell' esistenza del rito in Nocera Terinese.

Ma chi sono questi vattienti: "Sono uomini, dice Ernesto Pontieri, che adempiono il voto o praticano la devozione, una volta tramandata da padre in figlio, di flagellarsi pubblicamente, a ciò mossi dall'intento di castigare la carne, strumento del peccato, e di unirsi spiritualmente e sensibilmente a Cristo nelle sofferenze che precedettero la sua crocifissione".

Per una maggiore comprensione osserviamo come si svolge il rito dei vattienti nel nostro paese. In un locale in cui hanno accesso solo pochi intimi, e solo quelli di sesso maschile, il futuro vattente si spoglia degli abiti comuni per indossare quelli propri del rito: una maglietta di colore nero o comunque scura, un pantalone corto rimboccato quanto più possibile in alto, per lasciare libere le cosce, un panno nero, il "mannile", l'antico copricapo delle donne maritate, da avvolgere intorno alla testa in modo da posarvi la corona di spine fatta di "sparacogna", asparago selvaggio, che eresce spontaneo soprattutto nei luoghi ombrosi delle campagne noceresi.

Insieme al vattente si prepara al rito anche un altro personaggio che, in dialetto locale, viene detto "Acciomu", forse Ecco Homo. E' un giovane, per lo più un ragazzo di media età, proprio perché il Cristo rappresenta l'innocenza e 1' eterna giovinezza, abbigliato con un panno rosso cinto intorno alla vita, che, lasciando scoperto il petto, discende fino alle caviglie. 

La corona che anche l' acciomu reca in testa è fatta di ramoscelli di un arbusto dalle spine lunghe ed aguzze, chiamato in dialetto "spina santa". Il ruolo che recita l'acciomu nel rito ha dato versioni contrastanti. La più attendibile è che il ragazzo vestito di rosso, con la croce di canna in mano, la testa coronata di spine raffiguri il Cristo, il Cristo piagato dalle frustate degli sgherri di Pilato ed offerto, grondante sangue agli occhi del popolo sobillato dagli agitatori, inviati tra di esso dai sacerdoti. Il fatto è attendibile in quanto, durante la Settimana Santa, le nostre donne intonano nelle chiese i canti dialettali, che ricordano le antiche laudi anch'esse collegate al movimento dei Disciplinati, che ebbero nell'Italia centrale i luoghi di più rinomata produzione. 

In uno di questi "Ciancia, ciancia, Maria...." si trovano alcuni versi che sembrano descrivere il nostro acciomu : "....'ncurunatu de spine ccu na canna". 

 Esistono diverse varianti di questo canto ed in particolare nel verso : "...li vrazza 'ncruce e ra manu a na canna..." oppure"...'ncrueddru la cruce a na manu la canna..." ed ancora in un altro canto di Tropea si dice del Cristo "...e de russu fu vestutu a quinnici ure..." e per finire attestato su Lamezia "...alii sidici de russu fu vistutu...". 

Se a tanto si aggiungono le macchie di sangue, impresse a timbro dal vattente con la rosa dal suo primo sangue e simulanti le piaghe di Gesù e che l'acciomu porta in maniera visibilissime, pensiamo che non potranno più esistere dubbi a che il ragazzo che segue colui che pratica la flagellazione raffigura Cristo, che legato al vattente da uno spago a mò di cordone ombelicale simbolizza un'unica entità, esplicando inequivocabilmente, il significato del proprio sangue versato per Cristo. 

Dopo essersi vestito, il vattente, immerge le mani in un pentolone, la quadara, in cui è stata fatta bollire acqua con rosmarino e, con tale infuso lava le cosce e i polpacci, poi incomincia a percuotere le stesse parti con le mani, dapprima leggermente, poi con maggior forza in modo da favorire l'afflusso del sangue in tali zone. A questo punto entrano in scena la rosa anzidetta e il "cardu". La rosa è un disco di sughero del diametro di dieci centimetri circa e dello spessore di tre centimetri levigato su una faccia: esso serve a far scorrere via il sangue sgorgato dal colpo del cardo, onde evitare coaguli e lasciare libere le ferite cutanee.

Il cardo è anch'esso di sughero ed ha le stesse dimensioni della rosa, ma su una faccia è applicato un disco di cera vergine indurita, nella quale sono infissi tredici acuminati pezzetti di vetro, detti "lanze" le cui punte fuoriescono dalla cera circa due millimetri. Per la sua preparazione occorrono, oltre al sughero ed ai pezzetti di vetro, cera di una candela fusa, cera vergine ed una tavoletta quadrata atta a livellare le acuminate lanze. Queste vengono infisse nel cardo e livellate con la tavoletta in un ordine particolare: una al centro, poi altre quattro ed infine otto seguendo sempre una forma circolare ; le ultime otto lanze distano dall' estremo del disco circa due centimetri.

Una volta infisse nel sughero si procede alla liquefazione delle due qualità di cera, mescolate in un tegame. La fusione ottenuta si versa sulle lanze dopo aver provveduto a porre sul sughero una formella di latta che eviti la fuoriuscita della cera e che sarà toltaa solidificazione avvenuta. Le lanze sporgono dalla cera circa due millimetri. Il numero tredici indica Gesù Cristo e i dodici apostoli.

Anticamente venivano usate sette lanze che rappresentavano le piaghe del Cristo in croce. Con la rosa anch'essa bagnata nell'infuso di acqua e rosmarino, il vattente continua ad iperemizzare o "arrosare" come si suoi dire in gergo, le cosce e i polpacci. 

Iperemizzato il tutto, il vattente, ponendovi la massima attenzione, diversamente potrebbe procurarsi qualche lacerazione cutanea, si percuote rapido sulle cosce e sui polpacci. Le piccole punte di vetro penetrano nelle carni, ed il sangue che fuoriesce dalle trafitture, arrossa le gambe e con la rosa insanguinata arrossa di sangue il petto dell' acciomu, già a lui allacciato con una cordicella: il vattente è pronto per uscire.

Inizia, quindi, a percorrere l'abitato, di buon passo, ora accelerando e seguendo l'itinerario attraverso il quale si snoda la concomitante processione dell' Addolorata: un pregevole gruppo ligneo, probabilmente di bottega napoletana, opera rinascimentale, che riprende le forme della famosa Pietà di Michelangelo con l'eccezione della testa e quindi dello sguardo di Maria che è rivolto al ciclo in segno di offerta.

Le due figure danno il senso di un profondo dolore e per questo la Pietà rappresenta il fulcro di tutta la Settimana che precede la Pasqua. Sostando sul sagrato delle Chiese ed agli usci di case private di amici, parenti o infermi verso cui è rivolto il proprio atto di sacrificio devozionale, da ricordare che quasi tutti i vattienti sono donatori di sangue, lasciando con la rosa sugli stipiti della porta di casa il sigillo del proprio passaggio, forse antiche memorie dell' esodo ed ancora quando incontra la processione, davanti alla statua della Pietà, i cui portatori, detti "fratelli" allora si fermano e il flagellante, fatto il segno della croce, si batte con più veemenza e versa il proprio sangue. A questo punto un amico che lo accompagna, recando un recipiente contenente vino, comincia a versarlo sulle cosce e sui polpacci del vattente, questo per disinfettare le ferite e per evitare che rimarginino favorendo così la fuoriuscita del sangue.

Completato il giro del paese, i vattienti, ritornano nelle loro case, dove con l’infuso di acqua e rosmarino, grazie alle proprietà cicatrizzanti del tannino ivi contenuto, arrestano la fuoriuscita del sangue. Ciò fatto, indossano gli abiti comuni e si uniscono, soddisfatti, al corteo dei fedeli. Questo il rito. E la Chiesa? La Chiesa ufficiale ha sempre condannato ed ignorato il rito dei vattienti. Negli anni venti, il vescovo di Nicastro Mons. Giambro, cui l'Ecclesia di Nocera era stata temporaneamente accorpata, vietò tale forma di penitenza; anche le autorità di polizia intervennero per impedire la manifestazione. Si racconta che la Polizia portò in camera di sicurezza tutti coloro che non volevano addivenire agli ordini precisi impartiti. E quando la sera si decise di concedere loro la libertà, le celle furono trovate tutte macchiate di sangue che, sgorgando da solo, spontaneamente, dalle gambe di quei giovani, senza alcun mezzo meccanico, fece gridare al miracolo. Altri tentativi si ebbero, sempre per vietare il rito, molti anni dopo da parte delle autorità ecclesiastiche e dopo la seconda guerra mondiale da parte della polizia giudiziaria. Tutti questi tentativi furono vani.

L'ultimo divieto risale al 1958 (la data è eminentemente indicativa in quanto le fonti a disposizione non permettono di ricostruire con precisione le vicende di quegli anni) e venne da parte di Mons. Saba, vescovo, allora, di Tropea che nell' occasione così si espresse: "....Ha luogo effettivamente « a Nocera da tempo immemorabile la flagellazione praticata da fanatici.... lo spettacolo che richiama centinaia di fanatici, è invece uno dei più barbari e incivili e sta a dimostrare la mentalità retrograda degli attori e degli spettatori...". Il questore di Catanzaro su richiesta dell' autorità ecclesiastica, inviò a Nocera un plotone di militi. Il paese si trovò, quel giorno, in stato di assedio totale. Si ebbe, allora, l'intervento del generale Saturno Valentino, che assunse personalmente la responsabilità che tutto si sarebbe svolto regolarmente, il che, effettivamente avvenne. Da quell’ anno nessun altro divieto si è dovuto registrare, né da parte dell' autorità ecclesiastica, né da quelle di polizia.

Un ultimo giudizio negativo della Chiesa ufficiale sui vattienti risale al vescovo di Nicastro Mons. Palatucci che in questi termini ne scrive sulla Rivista "Sociologia": "L'osso più duro rimane una certa processione, che si fa a Nocera Terinese, il Sabato Santo. Dura quasi tutta la giornata ed è nota agli etnologi di Europa, che vengono a studiarla, vedendo in essa una testimonianza della sopravvivenza di riti magici pagani per impetrare, a primavera, la fecondità della terra. La nota più stonata della processione,..., è la partecipazione ad essa di giovani, "vattienti", i quali preceduti ciascuno da un ragazzo vestito di rosso con sulle spalle una piccola croce fasciata di rosso (l'"Ecce Homo") fanno scorribanda attraverso il corteo processionale, in mutandine succinte, battendosi a sangue sulle cosce con dischi di sughero, su cui sono applicati cocci di vetro.

I miei predecessori intervennero anche con i carabinieri per impedire tale processione, ma non ci riuscirono, anche perché a contrastare l'azione dei carabinieri ci si mettevano le autorità civili locali.... C'è da sperare che un lavoro di evangelizzazione a lungo termine possa modificare questa incresciosa situazione. Ho detto in chiesa ai fedeli di Nocera che, quando diventeranno più civili e più cristiani, modificheranno da se stessi quella loro processione".

In questi ultimi anni, nel corso di una intervista rilasciata dall' arciprete nocerese Don Alfredo Ferlaino, nell' ottimo reportage realizzato da Canale 5 per la trasmissione "Frontiere dello Spirito" diretta dalla dott.ssa Maria Cecilia Sangiorgi, si è così espresso: "...la fede dei Vattienti va disciplinata, purificata, alimentata...riconducendola alla liturgia rientra in una manifestazione di fede religiosa, veramente sentita, profonda...". Dall' anno 1993 al 1998 in varie trasmissioni l'attuale vescovo di Lamezia Terme, Mons. Vincenzo Rimedio, ha per i Vattienti parole di profonda comprensione. Egli infatti in una di queste trasmissioni si esprimeva con queste parole : "...Ed interrogati questi Vattienti hanno dato risposte molto significative e favorevoli, diciamo così alla ritualità. Perché in loro non e' è un motivo di esibizionismo, ma soprattutto e' è un voto, e' è una promessa fatta al Signore, alla Madonna soprattutto, penso. Perché è l'Addolorata, quella che si porta in processione, ed, è al centro della religiosità popolare di Nocera. Allora c'è questa promessa alla Madonna, per ottenere questo beneficio, per rimuovere questo malanno. C'è sempre in fondo un senso religioso che dobbiamo rispettare...".

L'ultimo intervento della Chiesa Ufficiale è rappresentato dalle esternazioni del Card. Ersilio Tonini, che intervistato in merito si è espresso in questi termini: "Anche la flagellazione non è autopunizione, ma è quasi voler partecipare alla passione del Signore: questo è un desiderio profondo di dire: "Tu hai fatto questo per me, io faccio questo per te"; e anche ancora a far sì che la gente visivamente capisca che il Signore non si è limitato a sentire sofferenza per noi, a sentir pietà di noi, misericordia di noi, ma è la carne vera, sangue vero. Se allora c'è un posto nel mondo dove i peccati, dove gli orrori, dove i delitti, le vergogne sono sentiti come eventi di coscienza, e si sente il bisogno della Penitenza di riconoscere Dio come Padre e di esprimere attraverso il corpo lo struggimento dell'anima, ben vengano; questo è segno di grande modernità, la vera modernità: la liberazione, la capacità di portare il proprio animo a non sentir più il peso del passato, ma recuperare tutte le energie e metterle a disposizione del bene di tutti."

Cosa pensa e come giudica la cultura laica questa "rappresentazione popolare" di sangue Pasquale? Indubbiamente la conoscenza del rito al vasto pubblico si ha con il film "Mondo Cane" del regista Jacopetti che, rispecchiando i tempi in cui era stato realizzato, poneva l'accento in una serie di servizi filmati, tra cui il nostro di Nocera, su fatti ed eventi che nel mondo cosiddetto civile erano da considerarsi ormai anacronistici e del tutto superati e non si tenne conto e badò all’aspetto antropologico, storico e culturale del rito, rappresentandolo così in modo distorto e al di fuori del proprio contesto. Fortunatamente nel tempo si è avuta una inversione di tendenza che ha cercato di spiegare i vari aspetti storici, folkloristici e antropologici del rito e a giudicare dalle numerose pubblicazioni su quotidiani, rotocalchi, riviste di folklore, e dalla presenza di cineoperatori e tecnici radio-televisivi si deduce che l’interesse è stato ed è, specie in questi ultimi tempi, molto vivo e con interpretazioni che variano dalle più strampalate a quelle vere e culturalmente serie e valide e tra queste la più esatta, ci sembra quella del Prof. Lombardi Satriani, noto antropologo, che nel volume "II ponte di San Giacomo", scrive: ".... La processione del Cristo morto a Nocera Terinese esplicita la presenza nel tempo pasquale di un tema decisivo: quello del sangue.....il sangue da vita, redime! La Pasqua è tempo in cui il sangue può essere virtualmente versato e salvare.

Il tempo pasquale è, infatti, uno degli spargimenti di sangue esemplare, il sacrificio di Cristo Salvatore, l'Agnus Dei qui tollit peccata mundi.... Agnello di Dio che assume su di se i peccati del mondo, il sangue può ridare la vita perché è esso stesso medium tra vita e morte....spargere il sangue proprio o altrui è darsi o dare la morte, ma dare il proprio sangue è dare la vita; la possibilità del suo proseguimento, in un suo radicale rinnovamento.....Flagellarsi in questa prospettiva....la prospettiva di morte per circoscriverla e trasformarla così in possibilità di vita".

Tratto dal volume:

Nocera Terinese - Storia, Fede e Tradizione 

Pasqua 2002

Associazione Turistica Pro Loco Ligea I.A.T.

Testi a cura di: Elvasio Curcio, Antonio Macchione, Szumskyj J. Antonio


 





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